Nacque nel 1660 a Mercatello presso Urbino. Mostrò già da bambina una grandissima attrazione verso Cristo e la sua Passione.
Nel suo diario così scrive riguardo la sua prima comunione: “Nella prima comunione mi pare che il Signore mi facesse intendere che io dovevo essere sua sposa. Provai un non so che particolare; restai come fuor di me; ma io non compresi niente. Pensavo che nella Comunione fosse sempre così. Nel ricevere quella Santissima Ostia, parevami che entrasse nel mio cuore un fuoco. Mi sentivo bruciare, non trovavo luogo e, frattanto non volevo dare qualche segno esteriore”.
A diciassette anni lasciò la sua comoda casa, la vita libera, la condizione altolocata, ed entrò tra le Clarisse del Convento di Città di Castello, in Val Tiberina. Ma, pur nelle ben serrate mura del chiostro, la giovane marchigiana mostrò i segni di un’eccezionale predilezione da parte dello Sposo celeste.
Devota della Passione di Cristo, ne riviveva puntualmente e visibilmente le sofferenze. Ebbe la fronte piagata da una corona invisibile di spine; un venerdì santo fu trafitta dalle ferite delle stigmate.
Nel suo diario scrive: “Qui mi pare che di nuovo mi venisse un dolore grande delle mie colpe col lume particolare dell’amore infinito di Dio. Fra dolore ed amore stavo, e vedevo in tutta realtà, su per aria, Gesù crocifisso. Io non posso con la penna dire quasi niente di quello che in quel punto provai ed ebbi. Solo ricordo che vidi spiccare dalle piaghe di Gesù cinque raggi, come di fuoco. Vennero alla volta mia: uno si posò nel cuore, gli altri nelle mani e nei piedi. Sentii pena grande e parvemi che mi fosse passato il cuore con un’acuta lancia e le mani e i piedi con un grosso chiodo… Ritornai in me con ansia del patire, con la cognizione di me stessa e col desiderio della conversione dei peccatori. Nel ritornare che feci in me, mi ritrovai con le braccia aperte e nella cella vi era un gran lume. La ferita del cuore era aperta e faceva gran copia di sangue: vi avevo gran dolore. Non mi potevo muovere in modo alcuno, stante la pena e il dolore che avevo nelle mani e nei piedi. Nel mezzo, tanto sopra la mano come sotto, vi era una bolla grossa come un cece. Quando io vidi questi segni esteriori, di molto piansi e di cuore pregai il Signore che volesse nasconderli alla vista di tutte”.
Per comprensibile prudenza, i superiori tennero la suora in totale reclusione. Le proibirono qualsiasi contatto con l’esterno, e la invitarono a prendere ordini da una suora conversa.
Consapevole di quali sconvolgimenti mistici agitassero la sua penitente, il confessore impose a Veronica di tenere un diario spirituale. Giorno dopo giorno, per più di trent’anni, la clarissa narrò minuziosamente, su quel diario, le sue sofferenze e le sue gioie, le preghiere e gli abbattimenti. Da quei fogli scritti senza artificio, e che il confessore gli proibiva di rileggere, presero corpo bene quarantaquattro fitti volumi che qualcuno, cominciando a pubblicarli, definì poi “un tesoro nascosto”.
Anche oggi le pagine di Santa Veronica Giuliani passano tra le più alte e più belle della letteratura mistica in Italia e altrettanto interessanti sono le testimonianza pervenuteci sul suo conto, sulla sua vita conventuale e sul suo atteggiamento verso le altre suore.
Veronica Giuliani morì a Città di Castello, nel 1727, un venerdì, dopo trentatré giorni di malattia. Morta, il suo corpo mostrava ancora i segni delle stimmate. All’autopsia, davanti ai medici e ai superiori, il cuore apparve trafitto da parte a parte.
La sua memoria ricorre il 9 luglio.